Cari amici, care amiche, ben ritrovati. Dopo la pausa estiva, rieccoci qui, e proprio come esattamente un anno fa, ma questa volta più compiutamente, a riportarci nella “Villafranca de na’ ‘olta” è la storia dell’amico Carlo Antonio Modena del casato dei “Ciocolo”, soprannominato “Vento”.
Non ci siamo mai incontrati di persona (cosa che mi riprometto presto di fare) e ci sentiamo di tanto in tanto per telefono, tuttavia tra noi è nata una sincera amicizia. Sono sicuro che gradirà questa pagina che sento il dovere di dedicargli anche senza chiedergli il preventivo permesso (come faccio solitamente), “e se nò, en do’ è la sorpresa?”. Carlo Antonio Modena, classe 1931, poeta e scrittore per passione, nasce da Aldo e Toscana Anna Masotto. Sono villafrachesi “de soca”, il padre ed i nonni paterni, Arturo e Emma Cordioli, mentre da parte di madre il ceppo è di Mozzecane. Assieme ai fratelli Marzio e Maria trascorre la sua infanzia e la prima giovinezza a Sona, dove il padre si è trasferito per lavoro sino a quel tragico lunedì.
E’ il 14 maggio 1945 ed è una bella giornata di sole. Subito dopo pranzo la mamma Anna, una bella donna che non ha paura di niente, decide di fare un salto a Villafranca per riportare al cognato Silvio la fisarmonica, che ha tenuto nascosta in casa per paura che fosse requisita dai tedeschi, e con l’occasione, per avere notizie dei parenti. Fisarmonica in spalla, inforca la bicicletta e giù per quella discesa, al termine della quale la troveranno senza vita. Cosa è successo in quei momenti tragici e bui del primo dopoguerra? Malore, incidente o aggressione (e allora ce n’erano di facce sconosciute che giravano per paesi e campagne)? Rimarrà un mistero.
Le versioni sul ritrovamento sono contrastanti e non è possibile fare chiarezza. Fatto sta che il giorno successivo, celebrato con sospetta premura il funerale, Carlo Antonio viene portato, assieme al fratello Marzio, a Villafranca dalla nonna Emma dove in serata è raggiunto anche dal padre e dalla sorella Maria. Carlo Antonio rimane con i nonni qualche anno poi segue il padre nella sede di lavoro a Perugia (dove anche lui poi trova impiego e dove vive tuttora) ma si porta dietro l’amore e la nostalgia per il nostro paese. Di quei pochi anni, vissuti intensamente e, nonostante tutto gioiosamente, come solo gli adolescenti possono fare, ha ancor oggi vividi ricordi e per evitare che possano andare perduti li ha messi per iscritto.
Pagine dalle quali mi sono permesso (e se mi autorizzerà, lo farò anche in futuro) di trascrivere qualche brano. “El laoro”: “Arrivarono le vacanze scolastiche e come regalo per la promozione “par no lassarme a sbrindolon”, mi procurarono un posto di lavoro. Andai a fare “el bocia da la siora Rosa Ciresola” titolare di un’officina meccanica per biciclette. Un monolocale sito di fronte al negozio di Nerino Santi. Mi affidarono al Gigi che aveva il compito “de ensegnarme el mestier”. La volontà non mi mancava ed imparai bene ed alla svelta ad accomodare camere d’aria che erano di buona gomma tanto che ci si facevano gli elastici per la fionda. Qualora il foro fosse invisibile si gonfiavano e si immergevano in un “cadin de acqua” fino a che non si evidenziavano le bollicine. Imparai ad attaccare “le pese” e a fare le giunte a quelle già troppo rattoppate. Gigi mi insegnò a “tirar su” i copertoni con le mani perché con i ferri si correva il rischio di “pisigar la camara d’aria”. Mi scaltrii sul commercio dei copertoni che i truffatori spacciavano per Pirelli mentre erano stampati Pipelli. Fra i vari compiti avevo anche quello di pulire le biciclette “con petrolio e penel e dopo sugarle con la strasa”.
Il compenso fu stabilito in una lira alla settimana che naturalmente dovevo consegnare a casa. In compenso le mance erano mie ma andavano tutte a finire in “paneti” acquistati al forno appresso. L’odore “del pan bianco appena sfornà” ed il ricordo di quello nero ed umidiccio del tempo di guerra faceva di me un accanito divoratore “ de paneti”. Il mio record era di ben nove “paneti” in una mattina e solo perché non avevo più soldi. L’orario di lavoro concedeva un intervallo dalle 12,30 alle 15,00 per il pranzo. Mangiavo alla svelta e poi via di corsa al Pakar assieme ad una decina di altri ragazzi tra i quali Gianni Becaua.
Il Pakar era uno stagno derivato da una grande cava e che misurava press’ a poco cinquanta metri di larghezza e cento di lunghezza. Sul posto trovavamo altri ragazzi e Napoli , messo comunale, esperto nuotatore che alla fine mi convinse ad imparare il nuoto, a spalletta, uno stile poco dispendioso adatto al gran fondo. Raggiunsi ben presto una buona tenuta ed autonomia, ciò mi fu di grande aiuto perché a vent’anni mi capitò di salvare uno sconosciuto che stava annegando nel lago Trasimeno. Ancora oggi mi meraviglio come, in quelle acque tanto pericolose, non sia mai successo nulla di irreparabile.
Del lavoro, della signora Rosa e di Gigi conservo un affettuoso ricordo”. Che emozionanti ricordi, e pensate che Carlo Antonio, pur essendo villafranchese “de soca” ci è vissuto, e vi ha giocato (nella foto è quello al centro), solo qualche anno ma ha assimilato così profondamente lo spirito della nostra gente che così lo descrive: “Il villafranchese appartiene a quella categoria di persone che anche nelle condizioni peggiori riesce a prendere la vita per il giusto verso. Questo modo di vivere e di ragionare ritengo che abbia contribuito a fare di Villafranca una cittadina meravigliosa, vivibile, che ti strega e ti costringe ad amarla. E più lontano gli stai più la nostalgia è forte e più i ricordi rimangono incancellabili”.
L’era la “Villafranca de ‘na ‘olta” e spero, almeno nello spirito, “anca quela de ancò”
Alla prossima.
Rico Bresaola
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